Ovunque andare

Se il mondo cominciasse a girare al contrario in questo preciso istante, non mi stupirei più di tanto: ho esaurito i neuroni disponibili a processare gli shock questa notte all’una.

Ricordate l’articolo recente “Quattro non più soli”?. Ecco, se avessi dovuto fare una previsione sul futuro di noi quattro amici, sicuramente avrei sbagliato di molto. In parole povere ho pagato la laurea al prezzo di un amico e un ragazzo, che in una scala da 1 a 10 è terribile 12. Quasi come se io avessi deciso di rendere prioritario lo studio nella mia vita, mentre avevo scelto tutto il contrario. Quindi oggi, al posto di festeggiare un mese da imbardata di alloro, mi chiedo come diamine si sia potuta concentrare tanta sfiga in un periodo così limitato.

Ma quel che è peggio è che la realtà non smette mai di sorprendermi. Per quale motivo darmi in pasto una gioia e un dolore insieme? Per farmi sperimentare la schizofrenia? Che non sai se essere contento da una parte o piangere dall’altra, sorridere, tenere il muso oppure cercare la calma nella perdita di conoscenza.

Sabato sera, ore 16.30
Sono pronta per uscire, ho osato mettere un filo di mascara (tenetelo a mente) e siccome ho cinque minuti di anticipo mi diletto a scattare un paio di foto. Poi mi chiama mia madre e sono magicamente in ritardo, ma questa è la storia della mia vita.

Alle 17.10 metto piede sull’autobus chiedendomi a cosa sia servito impiegare minuti e generose quantità di gel d’aloe per sistemarmi i capelli, se poi esco e c’è una nebbia mista a pioggia che urla “crespo!” ai miei capelli più dell’acqua marina. Comunque ci sono cose peggiori, tipo il tizio seduto dietro di me che tossisce come un tisico e mi fa rimpiangere di avere ignorato il Cebion per ben due settimane.

Sono ormai le 18.00 quando traslo me stessa fuori dal mezzo e vengo a contatto con una quantità enorme di gente che passeggia sotto i portici. Perché piove e quindi sono tutti schiaffati lì. Però ecco, il sabato a quest’ora ti rendi conto di cosa significhi “sovrappopolazione” e di come siano belle le campagne sperdute in cui passano forse un cinghiale e quattro corvi al giorno.

L’umore è grigio come il cielo, però ti ripeti che magari qualcosa di buono ci sarà. Tipo la cioccolata. O le speranze che riponi in chi si trova al tuo fianco. Anche se poi ti sorprendi a chiedere se davvero riponi ancora qualche speranza e vai avanti così per cinque lunghe ore, in una montagna russa di ripensamenti che se già ti sentivi un po’ male prima, ora stai proprio da schifo.

Piove, ma non è che cancelli le lacrime. Specie perché i muri del collegio non hanno crepe e non c’è proprio verso di prendere pioggia dentro le camere. Ti guardi intorno e sai cosa stai mettendo in gioco… tutti dicono che non rischi molto, tu, ma la verità è che non lo sanno. Dietro a due occhi castani c’è molto più di quanto si possa vedere. Tutto ciò che gli altri non notano o non comprendono, io lo capisco. Ed è per questo che staccarsi è un po’ come tagliarsi una mano. E tu non la vedi come una mano malata, mentre gli altri forse sì.

Il brutto è che poi da queste situazioni bisogna uscire e a da Torino si deve tornare a casa. Così vai alla solita fermata e ci trovi esattamente quello che non pensavi mai più di trovare. Un posto un po’ nascosto tra i sedili per lasciarti andare senza essere vista, godendo del buio notturno e del rumore di fondo della strada. E quando meno te lo aspetti, qualcuno che si accorga di quanto stai male, ti ascolti e provi a tirarti su di morale, a costo di dire scemenze.

Un po’ più di un anno fa avevo scritto:”É incredibile come la notte e la stanchezza distruggano qualsiasi freno inibitorio. Le chiacchiere notturne sono le migliori”. Stanotte le cose si sono ripetute, ma al contrario. Mi avessero dato un euro per scommetterci sopra, non lo avrei mai detto. E se fosse solo per questo, potrei anche essere contenta oggi.

Invece, guarda a caso, è stato necessario un diluvio per far comparire un timido sole dietro una nuvoletta e sembra che non ci sia modo di uscire da questo loop. Sono in una vasta distesa, quasi piatta, l’orizzonte è limpido, spoglio. Sembra tutto uguale, non so in che direzione andare. Non c’è traccia di terra battuta, anche se mi allontano dalla zona che considero sicura solo perché è dove mi trovo da tanto tempo. So che devo cominciare a camminare, il mio sangue pulsa scosso dal fremito dell’inizio di un’avventura, lo percepisco chiaramente. Eppure è difficile muovere i primi passi. I piedi pesano e tastano insicuri il terreno.

Non vedo nulla di certo sulla mia via, ma non posso restare qui per sempre.

Ovunque andareultima modifica: 2018-11-11T14:55:35+01:00da jessytherebel
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