È passato l’uragano

“So che sto per chiederti una cosa idiota, ma… potresti ripetermi la parte in cui ci sono i commenti positivi su di me?”

È così che comincia questa avventura, alla fermata di un autobus del quale nemmeno ricordo più il numero (perché, in sostanza, metà degli eventi della mia vita accadono dove intorno ai e sui mezzi pubblici), visto che ultimamente il mio raggio di esplorazione si è allargato e posso finalmente giocare a “ce l’ho, manca” con l’auspicio di vincere. O almeno, di non sfigurare.

Ho scoperto che esiste un’opzione più allettante del fare la muffa in università. Non che non mi piaccia più, ormai lì mi sento a casa e ora che ho anche un ufficio (fin quando non verrò cacciata per far posto a persone più istruite di me) mi mancano solo un fornello e un letto per poter dire di avere tutte le comodità. E secondo me, se conoscessi approfonditamente l’ambiente, potrei anche trovarli… Ma tornando a noi, aver pucciato il naso nel mondo che sta fuori, ovvero aver visto una vera azienda, mi ha spalancato una serie di portoni sul mondo che stento a credere riservino così tante sorprese.

A onor del vero, va specificato che non è tanto il posto in sé ad aver scatenato una baraonda di conflitti interiori, quanto le persone che ho conosciuto all’interno e che successivamente ho anche avuto il piacere di conoscere fuori.

Riassumendo: non appena ho creduto di aver trovato una stabilità mentale, è passato l’uragano a causare uno scompiglio di dimensioni notevoli, visto che giorno per giorno le domande esistenziali grattano sempre più in profondità nel mio piccolo animo e portano a galla qualsiasi dubbio. Tanto da farmi dubitare della strada che ho scelto di percorrere! (Immaginatevi questa frase detta con il tono di chi sta fingendo un entusiasmo inappropriato)

Anche se la constatazione principale che mi trapana costantemente il cervello è: io non so un cazzo. Di qualsiasi ambito si tratti, la mia reazione è la versione disperata del “so di non sapere”, con l’urgenza di carpire più informazioni possibili dalla società in cui sono immersa e l’impedimento fisico di chi ha una valanga di cose da imparare in ambiti che non aiutano a sviluppare rapporti sociali. Welcome back, sclero. Ecco perché l’obiettivo di questi 23 anni appena sfornati sarà conciliare entrambe le cose senza impazzire e portando a casa buoni risultati. Forse chiedo troppo, ma è necessario se voglio smettere di sentirmi un pulcino spennato appeno sporgo la testa leggermente oltre il confine dello spazio in cui vivo.

E ovviamente tutto ciò non bastava ancora, perché come si suol dire, le disgrazie non vengono mai sole, ma anche le montagne russe di emozioni non fanno eccezione e non so quale biglietto speciale io abbia strappato, ma mi ha dato accesso alla pista più assurda che io abbia mai visto. Tutto sta nel coraggio di lanciarsi e lasciarsi alle spalle la paura che qualcosa vada male. E io ho deciso di buttarmi, perché è giunto il momento di lasciare il porto sicuro e affrontare le novità.

Ho deciso di buttarmi una settimana fa.

No, no, no.
Una voce insistente nella mia testa non fa che ripetere questa sillaba e non esiste condizione esterna al mio corpo che la faccia tacere.
Nemmeno la musica alla radio e le strade di Torino sono sufficienti. Stasera poi il traffico quasi non esiste, sono le 21.10 e la città sembra vuota, almeno nella parte che sto attraversando io. Corso Tortona scorre sotto i miei occhi, i semafori non fanno in tempo a diventare rossi, ma la strada che sto percorrendo è a tutti gli effetti quella sbagliata. Non voglio che finisca così.
Arrivata al cimitero monumentale, svolto inconsapevolmente a destra allontanandomi da Corso Regio Parco e l’ennesimo senso di errore mi si incastra nella mente. Rallento, con gli occhi che vogliono guardare altrove per dare alla mente il giusto spazio per pensare. Mi sono promessa varie volte di non guidare in queste condizioni e poi non lo mantengo mai. Mai una volta che io ascolti la mia volontà.
Fino a che non compare un provvidenziale cartello blu, con un’enorme P bianca, che segnala un parcheggio in cui mi infilo mettendo la freccia all’ultimo. Un piazzale buio pesto sulla destra del cimitero, in cui tre auto sono ferme nel silenzio più totale. Un luogo da horror, non fosse che nella mia piccola Cinquecento sta già girando la pellicola di un altro film.
Sgancio il cellulare dalla pinza che lo teneva sospeso all’altezza della radio e che mi permetteva di usarlo come navigatore, continuo a ripetermi che non può finire così.
Invio il primo messaggio, la risposta arriva dopo qualche secondo e non porta con sé alcun suggerimento per la mia prossima mossa. Logico, perché l’iniziativa è in mano mia. Occorre controbattere rapidamente se non vorrò passare altri cinque minuti in questo posto tetro in cui mi sono fiondata, che assume un’aria sempre più losca ogni minuto che passa. Tra conducenti ci scrutiamo a vicenda, l’aria che tira puzza di affari segreti a cui non dovrei assistere.
Poi arriva l’idea: guardo il cielo dal parabrezza della mia auto alla disperata ricerca di una stella, nella speranza di poter scrivere il messaggio che ho in mente senza sembrare idiota. Sono pessima quando si tratta di avere buone idee in tempi brevi.
Ne vedo una, e decido che sia quanto basta per affermare che il cielo sia stellato. Potrò sempre dare la colpa all’inquinamento luminoso se chi legge non ne vedrà altre. In fondo loro sono lì tutte le notti.
Così scrivo e invio, ripetendomi che o la va o la spacca, il mio nuovo motto di vita. Nel peggiore dei casi, potrò sempre essere fiera di me per l’audacia che ho sfoderato sorprendendo anche me.
Due minuti dopo arriva la risposta, 52 secondi di audio che potrebbero avere sapore di successo o fallimento e mentre tutto ciò è già scritto nel destino della serata, io sto ancora fluttuando nella gioia dell’ignoranza. Ora però devo sbattere il muso contro la verità.
Ascolto.
Le cose vanno diversamente da come me le aspetto, sorpresa.
Sorrido, ho fatto bene a lanciarmi. Alla fine non era così pericoloso come credevo.
Ora devo solo levarmi da questo parcheggio.

L’euforia fa brutti scherzi. Uno a caso, farti dimenticare che devi aspettare un paio di secondi prima di ingranare la retromarcia, quando premi il pedale della frizione. La marcia si inserisce stridendo rumorosamente e attirando l’attenzione dei tipi loschi parcheggiati intorno a me, che manco a dirlo girano il volto all’unisono con un’occhiata di rimprovero verso di me. Che imbarazzo. Ma non me ne frega niente.
Più che uscire dal parcheggio, direi che scappo. Imbocco la strada che mi conduce in Via Bologna con un sorriso ebete sul viso, cerco una canzone allegra e ringrazio di avere già nel lettore cd il disco con le canzoni “del buon umore”. Perché sì, ho anche i cd depressi fatti a doc.

Mentre accelero sul raccordo, mi infilo in testa l’idea che ho tutte le carte in regola per giocarmi la mia chance e che – mannaggia-la-miseria – se questa chance non si crea da sola mi ci metto io a forgiarla di notte.
Finisco sulla piazza del mio paese. Quella in alto, con vista sulla pista aeroportuale. Il mio posto. O meglio, il versante sinistro del mio posto, che si estende per vari metri e si localizza con precisione di volta in volta, in base a dove non c’è traccia di presenza umana. Dalla panchina scruto le luci torinesi, dalla Mole fino alla Basilica di Superga. Un attimo fa ero lì ed ora sono di nuovo qua. Due mondi opposti. Poi i miei occhi si spostano ad indagare i movimenti degli aerei intorno all’aeroporto.
Lo capisco solo adesso perché mi attira tanto starli a guardare. Di solito atterrano un sacco di aerei. Li si vede già da lontano, perché stanno troppo in basso nel cielo per essere stelle. Piano piano si avvicinano e l’intensità delle loro luci aumenta, fino a quando toccano terra e cominciano a frenare. Ma di rado, specie perché è tardi, qualcosa prende il volo. In tutta la mia vita ho visto solamente due aerei decollare da lì, di cui uno questa sera. E per me, ormai, vale come un segnale. Se c’è qualcosa di importante in ballo, aspetto un segno dalla pista. E se un aereo decolla mentre i miei occhi sono puntati su di lei, andrà in porto. 

Due segnali positivi nella stessa sera. È ora di scendere in campo.

È passato l’uraganoultima modifica: 2019-11-03T11:37:18+01:00da jessytherebel
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