Senza parlare

Sono tanti, troppi giorni che rimando questo momento. Sento il bisogno di confrontarmi con la scrittura da almeno una settimana, ovvero il tempo da cui un grande attacco di pazzia mi ha abbandonato, lasciandomi vivere di nuovo serenamente.

Il pensiero di un futuro ripetitivo, segnato da scadenze, sfide sempre più complesse, mai un attimo di tregua: questo mi ha mandato in crisi due settimane fa, mentre in piena preparazione di due esami consecutivi mi sono chiesta “sarà così fino alla fine?”. La prospettiva di altri due anni simili a questo mi hanno fatto perdere ogni fiducia nell’avvenire, perché mi ero nuovamente ridotta a dire no ad ogni attività che non fosse lo studio. Non l’ho nemmeno spiegato a chi mi vedeva in ansia, tutti convinti che fosse dovuto alle incombenze della settimana successiva, e invece la mia era rabbia, cieca e furiosa perché ogni volta resto soggiogata a me stessa. In un mondo dove cerco disperatamente di non farmi sopraffare dagli altri, riesco addirittura a mettermi in difficoltà da sola.

I due esami sono andati, ho vissuto due giorni e mezzo di libertà. Tra mezzi pubblici presi senza guardare costantemente l’orologio, perché per una volta non sarebbe stato tempo perso, passeggiate con la mente leggera respirando a pieni polmoni, colori, corse e sorrisi, tutto ha ripreso un senso. Domenica mi sono concessa una giornata a Milano, anche se sarebbe più corretto dire che mi sono completamente fidata dell’idea del mio ragazzo senza pensarci più di tanto.
“Voglio portarti da qualche parte, ti va di andare a Milano?”
“Sì!”

Fare affari con me è efficace e veloce. Essere simili a me significa avere via libera verso ogni sfaccettatura del mio carattere e a Milano ho notato cosa comporta. Una giornata intera a vagare tra strade, ammirare palazzi, piazze, parchi e musei, quei fantastici macaron pagati cari come il fuoco, ma indimenticabili… la corsa al Duomo e poi alla metro, la cena con vista binari. E nessun velo.

Solo tornando mi sono resa conto che con la maggioranza della gente sembra esistere un muro frapposto tra me e gli altri, in un intrico di incomprensioni che spesso mi spinge al limite delle mie capacità cognitive, pur di capire come comportarmi in un determinato contesto. C’è un limite, qualcosa che blocca la corretta ricezione di me negli altri e forse viceversa. Io sono attenta ai dettagli, a volte fin troppo. Talvolta ,mi rendo conto delle emozioni della gente, ma sembra non essere mai abbastanza per instaurare un legame. Tempo fa mi chiedevo cosa ci fosse in me che non andava bene, crescendo ho capito che in realtà sono solamente un po’ difficile da decifrare, eppure non lo accetto. Non quando mi sento un pesce fuor d’acqua in mezzo alla società, perché non sono una ragazza superficiale a cui interessa solo se stessa. Non quando pur facendo di tutto per dimostrare a qualcuno che ci tengo, non ricevo un briciolo di attenzione. A volte mi sembra di rincorrere persone per niente, ma quando torno lucida so che è giusto farlo, che prima o poi servirà a qualcosa, che è così che si migliorano le giornate alle persone, dimostrando loro affetto, preoccupazione. Agli amici… a quell’amico che in fondo non ho mai smesso di rincorrere, anche se è cambiato tutto, che se ci penso si fanno strada sul mio viso due lacrime, dopo la sorpresa finita male di oggi.

Una svolta improvvisa di strada, non mi importa se tornerò a casa più tardi. Sono a Porta Susa, ma al posto di fermarmi allo stallo 13 proseguo dritta verso Via Cernaia, con la scusa che troppa gente sta aspettando l’autobus e non saliremo mai tutti. Arrivo al portone, i campanelli dorati. Una signora davanti a me entra lì, io colgo l’occasione di entrare prima che la porta si chiuda. Sarebbe una sorpresa ancora più bella. Poi invio un messaggio “apri la porta!”. Ma la porta non si apre. L’ascensore alla mia destra sale, scende, il numero 8 sopra la porta dell’appartamento mi guarda immobile. E poi una risposta “non sono a casa”. Tutte quelle coincidenze per niente, lasciate al caso. Me ne torno alla fermata.

Sebbene il mio umore non fosse dei più allegri, un piccolo tentativo l’ho fatto anche oggi. Scendo, saluto l’autista, sorrido. E in risposta, un sorriso. Ormai è diventato un mio marchio, dai felicità per riceverne. Nessuno saprà cosa c’è dietro il mio inarcare le labbra, se gioia, gentilezza o una richiesta di aiuto, quel che torna indietro fa sempre piacere e mi spinge a credere che qualcuno di buono al mondo esiste davvero.

E poi, senza parlare è tutto più semplice. Con un’occhiata si dice di più che a parole, basta trovare qualcuno che ha il coraggio di guardarti negli occhi. Sono un’arma potente, per chi non sa fingere come me poi, una vera condanna.

Non pensavo che una relazione potesse mettere in discussione così tanti aspetti del singolo. Magari è da ingenui, ma di solito è facile trovare i problemi nelle persone che interagiscono con noi, non dentro di noi e doverci anche fare i conti.

L’orgoglio, la voglia di indipendenza, quella stupida convinzione di essere sempre nel giusto. Non so nemmeno perché lo sto scrivendo, in fondo è così banale. Eppure, fino a che non lo si prova…
Probabilmente mi piace troppo il ticchettio dei tasti del portatile, un soffice contatto di tasti che risuona lieto nel buio della mia stanza, nella notte che avanza, isolata dal resto del mondo.

Senza parlareultima modifica: 2018-04-27T21:59:01+02:00da jessytherebel
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