Un classico in sessione

Se state leggendo questo pezzo, significa che ho abbandonato la chimica computazionale per dedicarmi a qualcosa che adoro ancora di più: perdere tempo.

Dopo tre giorni passati a reprimere la voglia di scrivere mi trovo costretta a cedere stamani, 09:27 locali, dopo aver appena passato in rassegna l’ampia scelta di set base con cui impostare uno dei famosi calcoli per cui vado matta ultimamente (ceeeerto, l’unica cosa sicura, appunto, è che sono matta).

Mi sono appena resa conto che è già passata una settimana dal mio primo esame della sessione estiva, mentre mi sembra che fosse appena l’altro ieri. Quasi quattro ore passate al terzo piano del civico 5 di Via Giuria a far guerra con la statistica (multivariata, quindi non così immediata) per dimostrare a me stessa di aver fatto pace una volta per tutte con una materia che mi aveva sempre causato problemi, nonostante sia stata sviluppata apposta per tirare fuori soluzioni da montagne di dati incasinati. Mi piace averci infilato la parola “montagne”. Tenete a mente.

Esco dall’università con un’evidente espressione provata, tra la gioia per l’esito positivo, la stanchezza e il pensiero di cosa mi sarebbe aspettato dopo. Pomeriggio libero, sì, quasi. E proprio mentre ripeto a me stessa ancora una volta di stare calma e rilassata perché ormai la parte complicata della giornata è passata, la mia biondissima e simpaticissima compagna di studi mi guarda e mi dice:”Jess, andiamo a mangiare?”

Al che mi trovo al bivio tra l’inventarmi l’ennesima menzogna o l’ammettere finalmente la verità, e vista la situazione non mi resta che scegliere la seconda, contando che non sarebbe molto credibile raccontare che non farò pranzo. Io. Ma per favore.

Così, arrivata in un posto che non saprei nemmeno come definire, essendo non solo bar, ma anche mensa (lascio a voi il compito), mi sento porre un’altra magica domanda:”Quanto hai fame?”

Allora amico, chiariamo un paio di cose. Potrei anche mangiare te in questo momento, perché ho fatto colazione alle 7 e adesso sono le 13, non fosse che hai avuto la brillante idea di invitarmi a pranzo e quindi, a dirla in parole povere, non sto capendo più un cazzo. Considerando poi quanto la capienza del mio stomaco dipenda dal mio stato emotivo, potrei mangiare da una foglia di insalata ad un tacchino ripieno, che  mi sembra un intervallo di possibilità un po’ troppo ampio per darti una risposta precisa. Quindi speriamo solo che io riesca a mettere giù tutto quel che c’è nel piatto, così evitiamo una figura di merda al secondo appuntamento, grazie.

Che poi era un appuntamento? Dopo un esame? Non sono l’unica ad avere tanto coraggio, su questo pianeta.

Alla fine, non so bene come, c’è stato tutto. Il pranzo intendo. Cavolo, rimpiango solo di non avere un video mentre tiravo giù le cozze della pasta come fossero acqua. Poi tornerei indietro di tre o quattro anni e lo farei vedere alla Jess novellina dell’università, insieme ad un altro paio di chicche dell’ultimo periodo.

Tipo, Jess che si mette un vestito ed esce senza morire dalla vergogna. Jess che dorme a lezione, in terza fila, in un’aula minuscola. Oppure Jess che va a fare shopping al mercato e ne esce soddisfatta, non più appesantita da mille pensieri negativi. Jess che sta così bene in università da non voler più tornare a casa. Chissà come mai, bricconcella!

Noi ridiamo e scherziamo, ma io l’ho messo davvero un vestito per andare (circa) in università martedì, nella seconda delle mie giornate di (finta) vacanza, in cui finalmente mi sono goduta una pausa dai libri e due passi sul Lungo Po.
Che poi, mi chiedo come sia possibile che certe cose succedano sempre in sessione, nemmeno fossero programmate a tavolino. Arrivano gli esami e ne succedono di tutti i colori. Ma in fondo va bene così. Bene perché, nonostante le disavventure da un lato, il contrappeso dall’altro è abbastanza bello da tenere in equilibrio tutta la situazione. In realtà è ben più di “abbastanza bello”. Tenete a mente.

Ora mi manca soltanto una cosa: la canzone giusta su cui imprimere i ricordi, visto che tra tutte le mie preferite del momento non ce n’è una che sia anche solo lontanamente adatta. Sempre detto che le canzoni migliori son quelle in cui si soffre un po’, peccato che non sia il caso di cominciare con una di quelle.

Continuerò ad ascoltare “A million dreams” e immaginare di cantarla a pieni polmoni dal balcone di casa, senza aspettarmi nulla di più di quel che ho. E che tutto vada nel migliore dei modi possibili.

Un classico in sessioneultima modifica: 2019-06-28T10:20:12+02:00da jessytherebel
Reposta per primo quest’articolo